martedì, aprile 19, 2005

Dieci anni fa non era diverso...

Ricorre quest’anno (1994, n.d.c.) una data che quel “matto” di Ezra Pound (ma anche Karl Marx) considerava cruciale nella storia economica e monetaria dell’occidente: la fondazione della Banca d’Inghilterra, prototipo di tutte le banche centrali oggi esistenti al mondo. A crearla fu William Paterson (1658-1719), figura geniale e drammatica come il suo conterraneo scozzese John Law (1671-1729), celebre per la bancarotta e l’inflazione provocate in Francia eccedendo nelle emissioni di carta moneta. Meno famoso di Law, a cui è rimasto un posto anche nella storia del pensiero economico, Paterson si formò nello stesso clima di cultura attento ai problemi monetari e della finanza pubblica, al punto che un trattato su Moneta e commercio uscito anonimo a Edimburgo nel 1705 è stato attribuito volta a volta all’uno o all’altro. E li uniscono nel ricordo le loro due vite travagliate. Paterson in gioventù era fuggito a Londra dalla Scozia per sottrarsi all’intolleranza religiosa. S’era messo a scrivere di economia, su cui aveva acquisito esperienze viaggiando in Europa e in America. Ideata nel 1694 la Banca d’Inghilterra, reclutando soci con l’offerta che vedremo, ne fu direttore solo per un anno: lo cacciarono i soci appena raccolti, per divergenze sulla sua politica bancaria.
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Fallito il tentativo di promuovere una banca concorrente, si gettò a capofitto in un altro grande sogno: la creazione d’una compagnia per piazzare in gara con gli spagnoli un insediamento britannico nel Darién, distretto che copre la parte est dell’istmo da cui è unita l’America centrale con quella del sud, assicurando in tal modo ai commerci inglesi via libera verso il Pacifico. Ma anche dalla guida di quest’impresa venne rimosso, benché probabilmente innocente, per una perdita nei fondi della compagnia. Partecipò ugualmente al disastroso tentativo di radicare in quei luoghi l’insediamento della Nuova Caledonia perdendovi, insieme ai denari, anche la moglie e l’unico figlio, divorati dalle febbri. Passò gli ultimi anni a concepire nuovi progetti finanziari e a polemizzare contro le banconote non convertibili di Law. Triste esistenza, dunque, per il padre di un’istituzione longeva e felice come fu e rimane la Banca d’Inghilterra. Ezra Pound l’ha denunciata nei Cantos come una supertruffa perché Paterson aveva allettato i soci prospettando i frutti di un’operazione così concepita «la banca trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla» (c. 46). Si trattava, in pratica, di prestare soldi allo Stato, dando moneta sonante al re Guglielmo d’Orange impelagato in spese militari, ma ottenendone in cambio, oltre agli interessi, l’autorizzazione a far circolare proprie banconote per lo stesso importo del prestito versato. In tal modo la Banca raddoppiava il patrimonio, rappresentato per una parte dalle monete d’oro e d’argento prestate alla corona inglese e di cui attendeva pur sempre la restituzione; e per l’altra dalla carta moneta accettata dai privati, resi fiduciosi dalla garanzia pubblica fornita dal sovrano. Da entrambe le parti la Banca riscuoteva gli interessi. Pound rimproverava a Marx di non essersi occupato abbastanza di moneta, ma un secolo prima era stato proprio lui, nel Capitale, a svelare i tratti truffaldini del meccanismo su cui stavano crescendo le banche centrali: «Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipare loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694).
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La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a battere moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 24, paragrafo 6, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 817-818). In qualunque modo si giudichino queste operazioni, partiva di lì il lungo e fecondo processo che ha portato alla sostituzione delle monete metalliche con le banconote e poi con altre forme di moneta bancaria (assegni, moneta elettronica ecc.) in tutte le transazioni d’una certa consistenza. Sino a ridurre le monete metalliche, uniche ancora direttamente emesse dagli Stati e a portarne quindi la direzione (Repubblica italiana o anche soltanto il nome della nazione), al rango minore degli spiccioli per il resto d’un giornale o per la mancia al bar. Mentre per comprare qualcosa che valga s’usano monete di carta con la dicitura della banca centrale: Banca d’Italia, Federal Reserve per gli Usa ecc. Oppure assegni o carte di credito.
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Trecento anni d’affinamento hanno prodotto molti cambiamenti, a cominciare dalla struttura del debito pubblico, che non è più principalmente alimentato dalle banche centrali, ma dal Bot-people formato da risparmiatori privati: e i titoli del Tesoro, largamente commerciabili, oggi sono la sola quasi-moneta d’una certa consistenza emessa dagli Stati, nonostante la disapprovazione virtuosa delle banche a cui fanno concorrenza nella raccolta del pubblico risparmio. Alla fase terminale del processo c’è la rivendicazione, piuttosto recente, di autonomia da parte delle banche centrali, che peraltro restano espressione e proprietà prevalente di banche commerciali o società assicurative private. Se Paterson, invocando dalla corona inglese il privilegio di battere moneta di carta in misura corrispondente ai prestiti erogati, avesse avanzato anche pretese d’autonomia nella gestione d’una sovranità monetaria che di fatto cominciava a usurpare, l’avrebbero considerato un matto da legare. Occorreva tempo, e, curiosamente, l’avvento delle democrazie, per perfezionare questa abdicazione del potere politico di fronte al potere finanziario: la creazione di moneta, sottratta dai greci nel VII secolo avanti Cristo, con il conio del re o della repubblica, al dominio dei mercanti, sta tornando sotto l’insindacabile controllo dei commercianti di debiti e denaro. Ma proprio la Banca d’Inghilterra, forse per la più precisa coscienza delle proprie origini e per la forza delle tradizioni, è ancor oggi tra le meno indipendenti.

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